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Adesso il padrino parla milanese

fonte: http://espresso.repubblica.it

di Paolo Biondani e Mario Portanova

Imprenditori del Nord che entrano nelle cosche: non più vittime ma veri mafiosi. Pronti a eliminare la concorrenza e sfruttare la crisi.
È il nuovo volto dei clan dove la violenza è al servizio degli affari

Anche il Nord sta imparando a convivere con la mafia. Dopo decenni di infiltrazione nei traffici illeciti e nel reimpiego dei capitali, le nuove inchieste svelano i sintomi di una malattia più profonda: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan. E ne “strumentalizzano i vantaggi competitivi”: si finanziano con capitali sporchi; ottengono protezione criminale; si prestano a dividere e reinvestire i profitti di droga ed estorsioni; affidano alla violenza dei clan il recupero dei crediti; ordinano attentati contro i concorrenti. Fino a diventare, come avvertono i magistrati più esperti, “imprenditori organici alle più pericolose cosche del sud”. Un’escalation che la crisi economica sta amplificando.

Nell’ultima relazione annuale al Parlamento, il pm Ferdinando Pomarici, capo dell’Antimafia a Milano, ha denunciato “l’occupazione criminosa di interi settori economici caratterizzati da difficoltà finanziarie”. Già negli anni Novanta le società della ‘ndrangheta si erano impadronite di luoghi simbolo come la Torre Velasca e la Galleria Vittorio Emanuele. Ora il procuratore stila un impressionante elenco di “imprese mafiose” che puntano a un “sostanziale monopolio” in mezza Lombardia: le attività a rischio sono, nell’ordine, “edilizia, immobiliare, centri commerciali, alimentari, sicurezza, discoteche, appalti, garage, bar e ristoranti, sale da gioco, distributori, cooperative di servizi, trasporti”.

Nel marzo scorso un’inchiesta ha dimostrato per la prima volta la partecipazione diretta di un cartello di cosche calabresi nelle grandi opere pubbliche come l’alta velocità ferroviaria e l’ampliamento dell’autostrada A4. In cella sono finiti i boss-imprenditori del clan Paparo, che da Cologno Monzese, tra un affare e l’altro, spedivano bazooka in Calabria. Il problema è che le loro aziende in teoria non avrebbero potuto comparire. Per aiutarle si sono mosse, secondo carabinieri e magistrati, imprese del Nord pronte ad affidare “subappalti totalmente in nero”. La Locatelli spa è un’azienda che gestisce 160 cantieri tra Milano e Bergamo. Le Ferrovie dello Stato pretendono il rispetto delle norme antimafia: vietato subappaltare più del 2 per cento dei lavori. A quel punto un manager rigorosamente lombardo suggerisce ai calabresi come nascondere le insegne del clan: “Sui camion schiaffaci due targhette Locatelli, così le Ferrovie non dicono niente”. I colletti bianchi del Nord arrivano a fabbricare “un falso contratto retrodatato” per occultare l’esistenza stessa del subappalto: “Abbiamo superato il 2 per cento, capisci… Sono cose serie, perché qui diventa la famosa legge antimafia, è un casino… Adesso sentirò l’avvocato, io direi che tutte quelle bolle le facciamo sparire”.

Il capo della contabilità di tutte le imprese del clan Paparo si chiama Mirko Sala, ha 36 anni, è nato a Vimercate e abita a Concorezzo, eppure è stato arrestato come presunto “associato alla ‘ndrangheta”. Il pm Mario Venditti aveva chiesto il carcere anche per il manager bergamasco della Locatelli. Il gip Caterina Interlandi lo ha negato con questa illuminante motivazione: l’impresa lombarda falsifica le carte “non per favorire il clan, ma per tutelare se stessa e continuare a lavorare in nero”. Quanto al manager, ha “innegabilmente” aiutato i Paparo a “eludere le norme antimafia”, ma questa “è solo una contravvenzione per cui l’attuale legge non consente l’arresto”.

In attesa che la classe politica rattoppi questo e altri strappi nei codici, le imprese mafiose diventano sempre più competitive. Le banche strozzano il credito? Ci si finanzia con la cocaina. I rifiuti tossici costano? C’è l’imprenditore di Desio che offre una discarica abusiva. Un sindacalista dei facchini disturba le cooperative calabresi alla Sma-Auchan di Segrate? I mafiosi gli fanno “spaccare la testa”.

Al Nord le cosche cominciano a trovare anche complici a pieno titolo. Maurizio Luraghi, nato a Rho 55 anni fa, e sua moglie, Giuliana Persegoni, sono stati arrestati in luglio come ‘teste di legno’ del clan Barbaro-Papalia, il più potente del Nord. Con la sua società Lavori stradali srl, Luraghi acquisiva commesse edilizie e le spartiva tra i membri del clan. Intercettato mentre nomina Domenico Barbaro e Rocco Papalia, l’imprenditore di Rho è commosso: “Tutti questi capannoni li abbiamo fatti noi… Tutto Buccinasco, il centro commerciale, li abbiam fatti io, Domenico e Rocco… Una città, abbiamo fatto”.

Almeno per ora, le voci dei mafiosi continuano a restare incise nelle intercettazioni della Dia. “Facciamo saltare te e il tuo capannone”. Con questa minaccia, seguita dal pestaggio di un agente immobiliare, un imprenditore di Gorgonzola viene costretto a “svendere a costo zero” tutto il suo patrimonio: capannoni, uffici, abitazione, seconda casa e villa all’isola d’Elba. L’estorsione è gestita dagli scagnozzi di Pepè Onorato, boss della ‘ndrangheta a Milano. Ma il vero mandante, secondo l’antimafia, è un lombardo doc: Marino Bonalumi, ricco stampatore con aziende tra Milano e Bergamo. La sua è una storia simbolo di vittima dei mafiosi che ne diventa complice. All’inizio i calabresi gli bruciano un capannone a Gessate. Ma lui non li denuncia, perché sotto c’è una storia inconfessabile di usure ed estorsioni, da cui Bonalumi si emancipa alleandosi ai boss. Un editore di La Spezia, suo debitore, è costretto a caricare tutti i suoi libri su 30 Tir, prima di fallire. Per almeno tre anni, Bonalumi e altri fiduciari lombardi tra cui Gianfranco Montali, ex presidente dell’Imperia calcio, avrebbero reinvestito il fiume di soldi incassati dai calabresi con la cocaina. E il canale più sicuro sono le ‘cartiere’: società-schermo che producono solo fatture false, aiutando decine di imprenditori del Nord a evadere le tasse. In cambio ai boss resta dal 30 al 50 per cento. Chi non paga salta in aria, ma non denuncia, perché il nero capovolge i ruoli: i lombardi “sono costretti all’omertà”, annotano sconsolati i pm, mentre “sono i boss a minacciare di avvisare la Finanza”.

Una storia di ‘cartiere’, secondo l’accusa, spiega anche il massacro dell’imprenditore bresciano Angelo Cottarelli, ucciso con la moglie e il figlio 17enne nell’agosto 2006. Il procuratore di Brescia, Fabio Salamone, da quella e altre indagini ha ricavato una convinzione: “Al Sud c’è omertà per paura, al Nord comincia a esserci omertà per interesse”. Interesse che può valere decine di milioni lungo i canali del grande riciclaggio: a Milano hanno fatto scalpore i recenti arresti di avvocati rispettati come Giuseppe Melzi e Paolo Sciumè.

La droga garantisce capitali enormi. E i colletti bianchi, all’occorrenza, si sporcano le mani. Un solo esempio. Secondo la squadra mobile di Milano, l’ufficio di Ivano Mondini, 48 anni, di Cremona, era diventato la base del narcotraffico dalla Colombia organizzato dal clan Morabito-Palamara, infiltrato nell’Ortomercato di Milano. Una microspia lo ha intercettato mentre spiega come trasportare la droga: “Su una macchina più di 50 chili non puoi mettere, meglio un camper”. Mondini è stato arrestato nel 2007, quando la polizia ha fermato il suddetto camper con 206 chili di coca pura.

Cosa nostra e ‘ndrangheta ormai si spartiscono intere province anche al Nord. “I gelesi controllano estorsioni e spaccio nella zona est, tra Busto e la statale varesina“, scrive il procuratore Pomarici: “Ai calabresi tocca la parte ovest fino a Malpensa. Dalle indagini dei carabinieri sembra che nella zona non vi sia un cantiere edile che non paghi il pizzo, come numerosi esercizi commerciali”. A confermarlo è “un’escalation di attentati incendiari, sparatorie, ferimenti e omicidi” in tutti i paesi attorno all’aeroporto.

In questo nuovo quadro, i fondi miliardari annunciati per l’Expo 2015 stanno già mobilitando la ‘ndrangheta. Nei comuni destinati a ospitare i maxi-cantieri stanno rinascendo le cellule dei clan (in gergo, ‘locali’), favorite anche da scarcerazioni di vecchi boss e matrimoni combinati. I finanzieri dello Scico segnalano già dal novembre 2008 un vero boom di “prestiti a strozzo strumentali all’acquisizione di imprese sane”, facilitata dallo “sfavorevole andamento dell’economia e sovraindebitamento di famiglie e aziende”. Secondo lo Scico, sarebbero “oltre 150 mila i piccoli imprenditori coinvolti in rapporti usurari-estorsivi”, di cui “almeno 50 mila con clan mafiosi”.

Questa “eversione del mercato”, come la definisce il pm Vincenzo Macrì, è “ormai diffusa a livello nazionale”. In Piemonte e Lombardia la ‘ndrangheta ha creato una sorta di ‘cupola del Nord’. Il nuovo modello di mafia economica diffusa sta influenzando anche Cosa Nostra. A Modena, segnalano i pm, “è emersa la presenza di famiglie mafiose siciliane”, che utilizzano “soggetti formalmente estranei come intestari fittizi di beni e imprese anche negli appalti”. In Liguria, dove nel dicembre 2008 risultano attivi 15 clan calabresi, “la ‘ndrangheta di Ventimiglia ha una funzione di regia”. Mentre Cosa Nostra ora punta al controllo del porto di La Spezia: un “ingente riciclaggio” che segue il modello dell'”infiltrazione nei cantieri navali di Palermo”. Una vera tradizione è anche l’infiltrazione nei casinò: un cambiavalute di Sanremo, Luigi Raiteri, è l’ultimo arrestato come presunto riciclatore della ‘ndrangheta.

Anche la camorra ha trovato soci al Nord, in particolare in Emilia. Per misurare pregi e difetti di certe alleanze, è emblematica una telefonata di Aldo Bazzini, immobiliarista di Solignano (Parma) condannato in primo grado per riciclaggio a favore dei casalesi. Una sua figlia acquisita è la moglie di Pasquale Zagaria, fratello del superlatitante Michele. Bazzini lo conferma a un avvocato: “Ha sposato un grosso boss… Fa la vita da ricchissima, da arabi: tutti ai suoi piedi. Certo non può uscire dalla villa, però quando vanno in giro, stanno nei migliori alberghi del mondo…”. Il legale domanda: “Ma lui la rispetta?”. E Bazzini risponde: “Sì, sì. Per la famiglia quelli lì sono meglio di noi!”

(23 aprile 2009)

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