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Racket degli alloggi, il pm accusa “Ci sono quartieri senza governo”

Fonte: http://www.milano.repubblica.it

La requisitoria di Sangermano nel processo sul presunto racket delle case popolari a Quarto Oggiaro: “Da quelle parti l’impunità va avanti da vent’anni. De Corato: “I giudici devono aiutarci”

di SANDRO DE RICCARDIS

«Ci sono zone della città lasciate a se stesse. Aree gestite dalla criminalità organizzata che si organizza per fare soldi. Persone che non usano la violenza, ma si avvalgono della forza intimidatoria delle famiglie a cui appartengono, e fanno a gara nell’individuare gli appartamenti da vendere». La requisitoria del pubblico ministero Antonio Sangermano punta alla condanna di tre imputati nel processo sul presunto racket delle case popolari a Quarto Oggiaro, ma è un duro atto d’accusa sulla gestione delle case pubbliche e delle periferie della città. «Il fenomeno delle occupazioni abusive a Milano è un fenomeno della cui esistenza non dubita più nessuno — denuncia il pm — Ci sono sentenze di condanna con riferimento a determinati comprensori, come quella in via Padre Luigi Monti. A Quarto Oggiaro la situazione è identica».

E infatti il pm chiede la condanna a cinque anni e otto mesi per Marco Veniani, quattro anni e dieci mesi per Giorgio Giuseppe De Martino, tre anni e otto mesi per Vincenzo Sannino, accusati di associazione a delinquere. Il primo è ex ispettore della Gefi (uno dei gestori delle case popolari), accusato anche di tentata concussione per aver chiesto favori sessuali in cambio di un occhio di riguardo nelle segnalazioni sugli appartamenti da liberare, mentre gli altri due sono custodi degli immobili di via Pascarella 18 e 20. Veniani, 55 anni, è ritenuto uno degli organizzazioni del «sodalizio criminale» il cui promotore, Gaetano Camassa, nei mesi scorsi ha patteggiato la pena insieme con un quinto imputato, Salvatore Rizzo, che materialmente sfondava le porte degli appartamenti Aler.

Sangermano rende atto al vicesindaco Riccardo De Corato di aver sollevato il problema, parla anche di «un clima di assoluta impunità, in un territorio non governato da nessuno per oltre vent’anni. Voglio sapere, e bisogna domandarlo al Comune, costituito parte civile — ha detto il pm — se ci possono davvero essere cautele quando sono più di vent’anni che vige questo clima di assoluta impunità» ha concluso il pm.
Da Palazzo Marino, De Corato assicura che «il Comune sosterrà sempre l’azione penale contro tutti i clan che cercano di spadroneggiare nei quartieri, come ha fatto contro le famiglie Pesco e Cardinale ricevendo un risarcimento di centomila euro. Dev’essere spezzato il clima di impunità – continua De Corato – molto può fare l’atteggiamento dei giudici, perché fino a un recente passato troppo spesso scattavano le archiviazioni sulla base dello stato di necessità».

Di «distinguere tra occupazioni di necessità e occupazioni dei clan» chiede Stefano Chiappelli, segretario del Sunia, il sindacato inquilini della Cgil. «Una proposta — accusa Chiappelli — che abbiamo fatto ad Aler, Comune e Regione senza avere alcuna risposta. Purtroppo le tante denunce fatte nei quartieri non hanno portato a nessun intervento». A Quarto Oggiaro come a Niguarda, le inchieste della magistratura erano partite dalle denunce di “Sos racket e usura”. «Da allora la situazione è migliorata in alcune strade – dice Frediano Manzi, fondatore dell’associazione – ma in altre, come in via Ciriè, continuano senza alcun contrasto. Proprio in questi giorni ci è stato offerto un alloggio in cambio di denaro in una strada in zona San Siro, segnale che il racket va avanti».

Coca, pistole e rapine Il ritorno di via Bianchi

Fonte: http://www.milano.corriere.it

Arresti nell’ex fortino: sgominata una famiglia di trafficanti. «Sono le nuove generazioni della mala»

MILANO – In fondo, il tempo passa anche in via Emilio Bianchi. Le avevano già messo dentro i tre figli e sotto Natale si son presi il marito. Tutti per droga. In casa la donna ha iniziato l’anno da sola. Succederà ancora, chissà per quanto. Famiglia italiana. In via Emilio Bianchi non c’è più l’eroina. C’è la coca. Il primo novembre due amici ne avevano così fame, sete e bisogno che hanno rapinato tre passanti, un McDonald’s, un’edicola e un camioncino che vende panini. Massimiliano De Bon e Davide Fros. Italiani. Di 29 e 30 anni. Ma qui si comincia da piccoli. Un mese fa hanno arrestato F.N. e G.C., 16 e 17 anni. Non soldatini, o galoppini. No. Venditori di droga, imprenditori in proprio. Gioventù italiana.

Via Emilio Bianchi sta nella periferia nordovest. A inizio degli anni Novanta l’attività quotidiana di poliziotti di commissariato e le inchieste del Corriere – sarebbero poi arrivati maxiblitz con gli elicotteri, processi, ergastoli – raccontarono, svelarono, e fecero tremare, non soltanto i Palazzi. Omicidi, ndranghetisti, insomma il fortino. I medici venivano perquisiti prima di salire dai pazienti. La posta veniva aperta prima di farla ritirare. I boss erano riusciti a far spostare più lontano la fermata del tram. I tossici venivano fatti mettere in ginocchio: schiavi supplichevoli. C’erano sentinelle ovunque. Quando in una faida ammazzarono Luciano Arena, e gli Arena erano una delle famiglie dominanti, il padre Salvatore infilò il dito in uno dei fori provocati dai proiettili e alla gente urlò: «Qualcuno pagherà per questo sangue». Presto uccisero pure lui.

Vent’anni dopo (1991-2011) siamo tornati in via Emilio Bianchi con uno che qui, allora, era un bambino. La sua famiglia traslocò, o meglio scappò. Lui ha fatto un gioco. Ha provato a rintracciare gli antichi amichetti di cortile. «Otto su dieci non ci sono più. Morti per l’eroina», dice, «oppure in carcere. O ancora in casa ridotti a vegetali. Io mi sono salvato. Com’è oggi? Ho l’impressione che alla fine manchi la volontà di cambiare davvero le cose, a Milano. Progetti e iniziative per i ragazzini, per esempio: non ce ne sono». L’Aler, proprietaria dei palazzi, tutti a quattro piani, intonacati, tenuti in ordine – ci sono residenti che esaminano i contenitori dell’immondizia per vedere se si fa la raccolta differenziata -, l’Aler dicevamo, ha messo una nuova portinaia. La precedente era italiana, quest’ultima è straniera e, tutti sono concordi, fa filare per quanto può, vigila, controlla, e speriamo la facciano durare. Dal commissariato di Quarto Oggiaro ricordano i recenti 14 sgomberi di abusivi e la riconquista di 16 cantine dove si spacciava, si divideva la roba rubata, e si tramava, aspettava, progettava. In primavera fu svuotato un caricatore contro la casa di un residente. Però non sempre le vecchie brutte maniere aiutano. Perché qui la gente guarda. Di più: racconta quel che vede. Una volta gli abitanti dovevano per forza vivere al buio, con le tapparelle abbassate anche di giorno. Oggi capita che telefonino alla polizia. Per segnalare. Indirizzare. Soffiare.

In via Emilio Bianchi ci sono una Madonna in una teca con davanti deposti mazzi di fiori finti, quattro sedie sotto un albero con un tavolino per le partite a carte degli anziani, una grata sopra il citofono per impedire che lo facciano esplodere, un enorme lucchetto al cancello così resta chiuso e non entrano in macchina per le consegne a domicilio della cocaina. Infatti si emigra, ci si sposta, si batte un’altra zona. Distante poche decine di metri: per la precisione in via Negrotto, la strada del campo rom con cui ancora si fanno affari. Chiedete a Benedetto Maffé, 38 anni, beccato a trafficare droga e a capo di una banda italo-nomade. Si racconta anche questo, in via Emilio Bianchi. Che quando l’ispettore di polizia e i suoi ragazzi l’hanno stanato e l’hanno informato che aveva facoltà di trovarsi un avvocato, beh, lì, il papà che stava per raggiungere i tre figli in galera ha detto: «Sapevo che tanto arrivavate. Era questione di tempo». Ha 65 anni.

 

Andrea Galli
04 gennaio 2011

Chi minaccia Frediano Manzi?

Fonte: http://www.giuliocavalli.net/

Frediano Manzi è uno di quei tipi umani che difficilmente riesce a farsi voler bene dalla politica: parla troppo, scrive nomi e cognomi e spesso finisce per mettere il dito nelle piaghe di una Milano che preferirebbe non sapere. I nemici di Frediano non funzionano per scrivere di epopee mafiose: stanno nell’arroganza di periferia dei Tatone a Quartoggiaro o nelle ciabatte unte dei Pesco-Cardinale e nei polsini bianchi del “cartello” delle pompe funebri milanese che riesce ad avere lo stomaco per pasteggiare anche sui morti. Boss mica buoni per farci una copertina, piuttosto quattro guappi sgarruppati che sembrano non interessare a nessuno. Nonostante loro siano molto interessati a Manzi. Aggiungiamoci anche Frediano non ha imparato in fretta e bene la postura elegante, sempre spettinato e di corsa nel cuore dei quartieri di Milano.
Frediano Manzi (e la sua associazione) non è stato minacciato ieri. Frediano Manzi è stato lasciato solo da un pezzo, supportato solo da qualche volontario e circondato dai politici nel tempo di una telecamera. Ha chiesto una sede e ha ottenuto qualche straccio di comunicato stampa, ha chiesto una mano per distribuire i propri questionari e si è sentito rispondere che bisognava capire quanti voti portassero, ha provocato ed urlato e si è meritato al massimo qualche querela. Frediano Manzi non lamenta minacce dalla mafia, Frediano Manzi è stato lasciato solo dalle istituzioni. Quando l’ho conosciuto qualche anno fa mi sono sempre chiesto chi glielo facesse fare, cosa avesse da guadagnarci. Nulla.
Sai, Frediano, ce lo siamo detti spesso che quello che conta a Milano è essere chic e non rompere alle persone sbagliate. E so benissimo che ormai la lezione non la impari più. Ma non preoccuparti, vedrai che alla fine l’odore di elezioni su Milano trasformerà tutti (da una parte e dall’altra) in paladini in tua difesa almeno fino al ballottaggio. Così almeno riusciremo a non lasciare in pace queste quattro fecce sparse per la città. Almeno fino alla prossima inevitabile parentesi di minacce e solitudine.

Preso con dieci chili di droga in casa. Arrestato Carletto Testa, ras di via Flaming coinvolto nell’omicidio del figlio di un boss della ‘ndrangheta

Fonte: http://www.milanomafia.com

Il fermo è avvenuto due giorni fa. Per lui l’accusa è quella di spaccio di droga. Nome noto alle cronaca, Carlo Testa è uno degli uomini di punta della curva milanista, in rapporti d’affari con Giancarlo Lombardi, capo del gruppo Guerri ultras oggi imputato per la tentata estorsione al Milan

Il fatto

Carlo Testa è stato fermato in via Mac Mahon nella casa della sua donna. Nell’appartamento, gli agenti del commissariato di Quarto Oggiaro hanno trovato due chili di hashish. Altri dieci sono stati scoperti nel garage del fornitore marocchino.

Anni fa Carlo Testa era stato coinvolto nell’omicidio di Rocco Lo Faro, figlio naturale di Santo Pasquale Morabito, boss della ‘ndrangheta, arrestato negli anni Novanta durante l’operazione Fior di Loto.

Milano, 31 maggio 2010 – Due chili di droga li hanno trovati nell’appartamento di sua moglie in via Mac Mahon, altri dieci nel garage del proprio fornitore, un giovane marocchino. Un bel colpo per gli uomini del commissariato di Quarto Oggiaro che due giorni fa in quella casa ci sono arrivati grazie a una soffiata. Vicenda ancora più interessante se a finire a San Vittore è uno come Carlo Testa, nome stranoto alle cronache giudiziarie per essere stato coinvolto (e poi prosciolto) nell’inchiesta della Dda milanese sull’omicidio di Rocco Lo Faro, figlio naturale del boss della ‘ndrangheta Santo Pasquale Morabito. Delitto, si disse, maturato nel mondo oscuro delle discoteche tra giri di droga e strane società di buttafuori. La vicenda si consumò fuori dal locale Scream di via Porta Tenaglia il 23 febbraio 1996. Pieno centro di Milano, a cadere sotto i colpi di due killer, oltre a Lo Faro, Johnny Rosselli, giovane sbandato che abitava nelle case popolari di Ponte Lambro. In primo grado Carlo Testa fu condannato a trent’anni. Il pm Laura Barbaini lo accusava di essere il mandante della sparatoria assieme a Igino Panaya, calabrese di Scandale e narcotrafficante in busta paga alle cosche della ‘ndrangheta. In appello i due furono scagionati “per non aver commesso il fatto” e restituiti al loro regno: le case popolari di via Fleming in zona San Siro. Questo da sempre il territorio di Carletto Testa, personaggio di punta anche della curva milanista. E non solo: visto che negli affari della malavita curvaiola lui giocherebbe un ruolo di mediatore con il ras Giancarlo Sandokan Lombardi, oggi a processo per il caso della tentata estorsione al Milan.
In questa storia di droga si annidano molti segreti della Milano criminale. Sì perché oltre a Igino Panaya, attualmente libero, la vicenda di Carlo Testa riporta alla luce segreti inconfessabili. Come quella foto di lui assieme al presidente del Milan nel tunnel che dal campo di San Siro porta agli spogliatoi. E’ calcio nerissimo anche quello che si respira in un bar vicino a via Karl Marx e dove Carletto Testa vive una vita da protagonista. Almeno fino a quando, in una brutta notte di qualche anno fa, non compare Giancarlo Lomabardi, origini napoletane, ma radici ben piantate nel cemento armato di viale Ungheria. Con Testa a quell’ora nel locale ci sono poche persone, tra loro alcuni capi storici della curva rossonera. Quando arriva Lombardi non è solo, ma in compagnia di un tipo robusto con la passione per le armi e il poker. Si chiama Loris Grancini e la Squadra mobile di Milano lo ritiene personaggio vicino sia ai clan siciliani sia a quelli calabresi. Nel 2006, Grancini verrà coinvolto nel ferimento di un tifoso juventino avvenuto nella zona di via Venini. I due gruppi si affrontano a muso duro. Lombardi, spalleggiato da Grancini, pretende un posto in curva (lo avrà). Testa non ci sta: “Chi cazzo siete? Questa è zona mia”. Solo più tardi si accorgerà di un’ auto scura che si aggira nei dintorni e dalla quale due tizi scenderanno con un cartone pieno di armi.
Eppure Testa si riprenderà la sua rivincita qualche anno dopo, quando nello stesso bar, le famiglie mafiose di Milano, convocheranno Lombardi perché chiarisca la sparizione di 700.000 euro guadagnati con i biglietti della finale di Atene 2007 tra Milan e Liverpool. A quell’incontro saranno presenti anche uomini legati al superboss di Cosa Nostra Gaetano Fidanzati. Chi c’era racconta di un Lombardi pesantemente “redarguito” dallo stesso Testa. (dm)

Case popolari, ragazze madri cacciate ma nessuno sgombera i signori del racket

Fonte: http://www.repubblica.it

I sindacati e l’associazione antiracket  “Sos usura” chiedono interventi anche sui clan
Organizzato un presidio in via Ciriè: “Il quartiere deve vincere la paura della mafia”

di SANDRO DE RICCARDIS

Se cerchi i boss di Niguarda, se cerchi la famiglia Pesco, basta andare in via Val Cismon – uno dei primi palazzoni della via – e suonare il campanello. I Pesco, anche dopo l’operazione della squadra mobile che ha arrestato a novembre Giovanna Pesco, la “signora Gabetti”, sua figlia e il genero, sono sempre lì. Basta cercare il nome sul citofono e suonare.

I Pesco non solo decidono a chi assegnare a caro prezzo gli appartamenti negli stabili popolari, ma li occupano abusivamente loro stessi. Ne hanno quattro in un palazzo di via Val Cismon, e sei nella parallela via Padre Luigi Monti. E quando l’inchiesta della procura gli ha tolto la disponibilità di quelli dove abitavano, loro si sono spostati negli altri locali del loro personale patrimonio — circa venti alloggi — di case popolari a Niguarda. Alcune sono pronte a essere abitate, altre blindate dai lucchetti per custodiscono il vero business dei clan, la droga.

VIDEO Le immagini che hanno fatto scattare l’inchiesta

La storia dei Pesco in un pezzo del quartiere Niguarda, è uguale in ogni periferia della città. Mentre l’Aler va avanti al ritmo di uno sgombero al giorno, le case dei clan non vengono toccate, se non quando sono le forze dell’ordine a procedere a sequestri e arresti. Appena due giorni fa, in via Abbiati, a San Siro — uno dei pochi quartieri dove le occupazioni non sono gestite dalla criminalità organizzata — a essere sfrattata da un alloggio occupato abusivamente è stata una ragazza e la sua bambina di sei anni. La donna, che ha perso il marito in un incidente, era seguita dai servizi sociali. Il Comune le ha offerto un posto in una casa alloggio a Cremona anche se la donna ha a Milano un lavoro da 700 euro al mese e la figlia frequenta le scuole a San Siro.

Quello che non viene toccato dagli sgomberi comunali è il potere delle famiglie locali di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Ancora al Niguarda, dieci appartamenti in due stabili di largo Rapallo, sono nella diretta disponibilità dei Feola, famiglia napoletana che ne gestisce una trentina. In quattro palazzi di via Ciriè e in uno in via Racconigi le famiglie pugliesi dei Carella e dei Di Nuzzi occupano personalmente dieci appartamenti tra le due vie — hanno anche la luce allacciata abusivamente — ma ne controllano circa 70. Nel quartiere tutti lo sanno: basta andare in un bar di via Moncalieri per chiedere una casa. Servono duemila euro per entrare. Qui i clan sostituiscono l’Aler anche nella riscossione degli affitti: dagli extracomunitari che vivono in sette o otto per appartamento, pretendono ogni mese 300 euro ciascuno. Un business enorme.

«Dal 2005 gli stabili di via Ciriè hanno un unico amministratore che ha fatto solo denunce generiche di spaccio — accusa da tempo Frediano Manzi, fondatore di Sos Racket e Usura, che con le sue denunce ha dato il via a diverse inchieste contro i clan nei quartieri —  Della stessa società di amministratori di condomini è stata socia fino al 2006 la moglie, che è una funzionaria dell’Aler». Documentazioni che Manzi ha già portato in questura. Come l’ultima denuncia, ieri pomeriggio: un video di 50 minuti in cui una inquilina di Quarto Oggiaro racconta di un altro ispettore della Gefi — dopo quello arrestato pochi giorni fa — che chiede sesso per evitare sgomberi, d’accordo con alcune portinaie.

Per distrazione o connivenza di chi dovrebbe controllare, i clan gestiscono il racket indisturbati. Al Giambellino, in via Vespri Siciliani, 28 appartamenti su 30 di uno stabile sono controllati dai Grimaldi, famiglia di calabresi che assegnano le case Aler tra via Bellini, Vespri Siciliani e Bruzzesi. In via dei Cinquecento, al Corvetto — dove venerdì scorso, è stata sgomberata una donna coi suoi figli di uno e sei anni — il mercato delle occupazioni è affare degli Schettino (napoletani) e dei Dapone (pugliesi), che oltre ad avere occupato in vent’anni 15 appartamenti controllano persino le occupazioni delle cantine: le affittano agli spacciatori maghrebini per duemila euro. A Quarto Oggiaro, i Tatone (casertani) e i Carvelli (crotonesi) hanno la disponibilità diretta di tre appartamenti in via Capuana e uno in via Pascarella.

I clan hanno ville fuori città, appartamenti sparsi tra l’hinterland e il centro, ma scelgono di restare nel quartiere per controllare il territorio, gestire il traffico di droga, dare case ai soldati del proprio esercito. «Una politica di sgomberi che intervenga sui potenti prima che sulla povera gente serve a sradicare il controllo criminale dei clan nei quartieri — dice Carmela Rozza, consigliere comunale del Pd — A Niguarda invece lo spaccio è in aumento, così come le occupazioni abusive a Quarto Oggiaro. La strada dev’essere chiara: Aler e Comune devono scacciare i delinquenti e assegnare le cinquemila case vuote».

Questo chiederanno di nuovo i residenti e le associazioni al presidio di Sos Racket in via Ciriè 1. Una settimana fa, in via Padre Luigi Monti, la parte onesta dei caseggiati ha avuto il coraggio di compilare decine di questionari, sfidando gli uomini dei clan, fermi a controllare dal marciapiede opposto. Ora gli organizzatori sperano che anche oggi il quartiere vinca la paura e scenda in strada contro la mafia delle occupazioni abusive.