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Blitz antidroga a Milano, 41 arresti il traffico gestito da boss in carcere

Fonte: http://www.milano.repubblica.it

Durante l’operazione sono stati sequestrati oltre 70 chili di cocaina e 10 chili di eroina
Arrestati due volontari dei City Angels che trasportavano pizzini dei capi fuori dal carcere

Con 41 arresti e sequestri di beni patrimoniali per oltre un milione di euro è scattata una vasta operazione da parte della guardia di finanza di Milano per contrastare il traffico internazionale di stupefacenti tra l’Italia e la Colombia. Le indagini sono coordinate dal pm della Dda milanese Marcello Musso e i reati contestati a vario titolo sono: associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, falsificazione di documenti, corruzione, riciclaggio, ricettazione, trasferimento fraudolento di valori, detenzione illegale di armi e munizioni e truffa.

Gli uomini delle Fiamme gialle hanno eseguito il sequestro preventivo di immobili e di un complesso aziendale nelle province di Milano e Monza Brianza. Due degli indagati sono inoltre, risultano legati alla ‘ndrangheta. Tra gli arrestati ci sono anche due volontari dei City Angels che all’epoca dei fatti operavano all’interno di San Vittore per fornire assistenza ai detenuti, ma in realtà si prestavano a veicolare all’esterno della struttura carceraria le istruzioni dei boss detenuti. Complessivamente, l’operazione ”Shut Up” – svolta con la cooperazione delle polizie di Croazia, Belgio e Spagna – ha consentito di denunciare 70 persone – oltre ai 41 destinatari delle ordinanze odierne e di sequestrare 70 chilogrammi di cocaina, oltre 10 di eroina e una serie di pistole e mitragliette.

Estorsione al vincitore del Superenalotto due mafiosi condannati a 12 e dieci anni

Fonte: http://www.milano.repubblica.it

La vicenda nel 1998. Nel mirino un siciliano trasferito a Lodi che aveva vinto quasi sette miliardi di vecchie lire: dopo l’intervento di Cosa nostra fu costretto a versare la somma di 400 milioni

Con intimidazioni e minacce avevano estorto circa 400 milioni di lire a un siciliano, residente a Lodi, che nel 1998 aveva vinto quasi 7 miliardi di vecchie lire al Superenalotto. Per i due, appartenenti a famiglie mafiose di Cosa nostra, sono arrivate le condanne a pene fino a 12 anni di reclusione, emesse dalla terza sezione penale del tribunale di Milano. In particolare Alessandro Emmanuello, fratello del boss Daniele, è stato condannato a 12 anni di carcere dal collegio presieduto dal giudice Piero Gamacchio. L’altro imputato, Francesco Verderame, è stato invece condannato a dieci anni.

Per la stessa vicenda, lo scorso 8 giugno, era stato condannato con rito abbreviato a dieci anni di reclusione Carmelo Massimo Billizzi, mentre un anno e due mesi di carcere erano stati inflitti a Rosario Trubia e a Crocifisso Smorta, due pentiti che hanno collaborato alle indagini. Tutti e tre sono ritenuti vicini ai clan di Cosa nostra e Stidda. La vittima dell’estorsione, Salvatore Spampinato, nel ’98 aveva vinto al Superenalotto 7 miliardi di lire e subito dopo, stando alle indagini del pm della Dda milanese Marcello Musso, aveva subito minacce mafiose da parte di alcuni stiddari, che avevano avuto la soffiata sulla vincita da un suo stesso parente.

La sua abitazione era stata incendiata e aveva ricevuto anche numerose telefonate anonime, nelle quali gli veniva chiesto di pagare il pizzo sulla vincita. Era poi intervenuta anche Cosa nostra, stando al racconto del pentito Trubia, che era riuscita a farsi dare parte della vincita, 400 milioni di lire, spartita poi tra le due organizzazioni mafiose. Spampinato, che si è costituito parte civile, ha ottenuto un risarcimento a titolo di provvisionale.

Quarto Oggiaro senza più padroni. Il clan Flachi in prima fila per la piazza di spaccio più ricca di Milano

Fonte: http://www.milanomafia.com

Dopo gli arresti che hanno colpito i clan Tatone e Carvelli e la cattura dei narcotrafficanti Castriotta e Filisetti, il quartiere della droga è senza padroni. Ma la grande corsa è partita, e da Bruzzano arriva l’ombra dei Flachi

Gli arresti

Nel 2007 la polizia arresta a Quarto Oggiaro Mario Carvelli e alcuni uomini legati al clan Sabatino-Carvelli di Petilia Policastro (Kr). Ma gli arresti durano lo spazio di qualche giorno e molti uomini del clan vengono scarcerati
Scatta così l’operazione Ciak 2 condotta dalla squadra Mobile e dagli agenti del commissariato che riporta in carcere con l’accusa si associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, il boss Mario Carvelli
A fine 2009 Mario Carvelli viene condannato in primo grado a 30 anni di carcere
Nel dicembre 2009 scatta l’operazione Smart che porta in carcere invece i casertani del clan Tatone
A novembre invece i carabinieri del Ros avevano arrestato il boss Nicola Tatone, insieme ai narcotrafficanti Giordano Filisetti e Francesco Castriotta

Milano, 24 marzo 2010 – Gli equilibri sono saltati, il mercato è senza padroni. Quarto Oggiaro oggi è terra di conquista. Il grande supermercato a cielo aperto della droga non s’è mai chiuso, ma dopo gli arresti degli ultimi due anni la geografia criminale del quartiere ha cambiato volto. Mario Carvelli, condannato a 30 anni per l’inchiesta Ciak 2 che nel giugno del 2008 aveva portato in carcere l’intero gruppo Sabatino-Carvelli, è ormai fuori gioco. Con lui buona parte del gruppo composto perlopiù da giovanissimi. E fuori gioco sono oggi anche gli uomini del clan Tatone, guidato da Nicola Tatone, arrestato nel corso dell’operazione Pavone del Ros dei carabinieri e successivamente raggiunto da una nuova ordinanza di custodia del Commissariato di Quarto Oggiaro nell’operazione Smart lo scorso dicembre. Arresti che hanno messo la parola fine al gruppo di spaccio che aveva nel frattempo conquistato le piazze lasciate libere dai Carvelli. In carcere dallo scorso novembre anche Francesco Castriotta e Giordano Filisetti, accusati di traffico di droga proprio nell’operazione Pavone. Loro, secondo le accuse del pm Marcello Musso, per anni hanno rifornito all’ingrosso il mercato di Quarto Oggiaro. E oggi? Lo spaccio non s’è mai fermato, ma sicuramente il contraccolpo degli arresti è stato forte, fortissimo.

Storicamente sulla zona di Quarto Oggiaro ha sempre pesato la figura di Biagio “dentino” Crisafulli. Lui oggi è in carcere a Fossombrone (PU), come molti uomini che in passato lo hanno affiancato. Suo fratello Franco è stato ucciso proprio a Quarto Oggiaro il 24 maggio del 2009, ma l’omicidio non è maturato per questioni di droga ma per affari personali con Donato Faiella, reo confesso e arrestato pochi giorni dopo. Altre storie quindi. Ma soprattutto altri tempi. Oggi, dicono gli investigatori, il gruppo in pole position per la guida di Quarto Oggiaro è un altro. In particolare si parla degli uomini legati al boss Pepè Flachi, oggi in carcere. Uomini che, dopo gli arresti delle operazioni Wall Strett e Atto Finale, sono tornati a guidare la malavita organizzata a Bruzzano, il quartiere a nord di Milano da sempre nelle mani del gruppo Flachi. Il clan, secondo le ultime analisi, avrebbe negli anni aumentato il proprio peso sulla Comasina (altro storico avamposto della cosca) e da lì si sarebbe allargato fino al vicino quartiere di Quarto Oggiaro, passando per la Bovisasca.

Gli inquirenti ritengono oggi il gruppo Flachi uno dei più attivi dopo gli arresti. Il loro peso nei quartieri Comasina e Bruzzano non sarebbe mai venuto meno, in tutti questi anni. Del resto anche le loro attività commerciali e imprenditoriali sono rimaste negli stessi quartieri: negozi, ditte di trasporti e ristoranti. Ma gli interessi del clan non si fermerebbero qui. Fin dagli atti dell’inchiesta Wall Street emergono i contatti tra il capo clan Pepé e alcuni imprenditori edili milanesi. In particolare con il costruttore Sergio Domenico Coraglia, coinvolto e poi assolto in Cassazione nell’inchiesta Duomo connection. Negli anni, il gruppo di Pepè avrebbe continuato a tessere rapporti con il mondo imprenditoriale. Non solo perché il gruppo Flachi avrebbe cercato legami con gruppi politici, in particolare con il mondo dell’estrema destra e dei locali notturni.

Il traffico di droga, infatti, è sempre stato il principale business del clan, fin dagli anni Ottanta ai tempi dell’alleanza con la famiglia campana dei Batti. Un sodalizio interrotto bruscamente alla fine degli anni ’80, quando il clan guidato da Pepè Flachi ha stretto alleanza con gli ‘ndranghetisti guidati da Franco Coco Trovato. E da quel momento iniziò la guerra scatenata da Flachi e Coco Trovato contro i Batti. Una faida che ha portato a 14 omicidi in poco più di dieci anni. Poi gli arresti e il carcere anche per gli uomini dei Flachi, tutti originari di Reggio Calabria. Ma nelle carte dell’inchiesta Pavone il nome dei Flachi è tornato a farsi sentire. E soprattutto il loro peso.

Per la vicenda Pavone il pm Musso aveva chiesto il carcere per il fratelli Enrico, classe 1964 e Giovanni classe 1974, ma il gip Stefania Donadeo aveva rifiutato la custodia cautelare data “l’esiguità delle prove raccolte” dai Ros in merito all’accusa di riciclaggio di denaro. Enrico e Giovanni sono fratelli di Giuseppe Flachi, detto Pepè, e il loro coinvolgimento nell’indagine per traffico di droga si deve soprattutto ai legami con Francesco Castriotta. E’ lui, infatti, nel luglio del 2006 a chiedere un incontro con Enrico Flachi. Lo scopo è quello di ricevere protezione dalla famiglia, dopo che Castriotta era scampato ad un agguato. Persone, annota il gip, “influenti di Quarto Oggiaro per ricevere protezione e rassicurazione circa la propria incolumità”. Castriotta, insomma, temendo di essere ucciso chiede garanzie ai Flachi. Per il narcotrafficante il solo intervento dei Flachi, che comunque farebbero riferimento al boss in carcere Pepè, sarebbe sufficiente ad evitare nuovi agguati nei suoi confronti. E infatti, dopo quell’episodio, la situazione si placa. Ma c’è di più, perché secondo le accuse Castriotta avrebbe messo in piedi con i Flachi, e in particolare con Giovanni, un giro di riciclaggio. Un giro che si interrompe in modo brusco quando Giovanni Flachi non onora i propri impegni e non restituisce il denaro, una piccola somma intorno ai 7 mila euro. Questo almeno a leggere le accuse, che tuttavia non vengono ritenute “sufficienti” per emettere un ordine di custodia cautelare in carcere. (cg/dm)

Omicidi di mafia. Liscate, 1987. Ecco come fu ucciso il boss Gaetano Carollo. “Riina voleva riportare Cosa nostra a Milano come ai tempi di Luciano Liggio”

Fonte: http://www.milanomafia.com

In 700 pagine il pm Marcello Musso racconta mandanti e killer di sei omicidi di mafia avvenuti a Milano a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Milanomafia ve li racconta. Si inizia con il boss Gaetano Carollo

L’indagine

Il sostituto procuratore Marcello Musso chiude in 700 pagine di richiesta cautelare la storia di dieci anni di mafia a Milano. Una storia scandita da sei omicidi fino ad oggi ancora priva di colpevoli.
Attraverso le testimonianze di pentit: da Giovanni Brusca ad Antonino Giuffrè, Musso dà nomi e volti ai killer di Gaetano Carollo (6 giugno 1987), di Vincenzo Di Benedetto (20 novembre 1987), di Cristoforo Verderame (30 ottobre 1988), si Scerra Carmelo (15 giugno 1989), di Carmelo Tosto (3 ottobre 1990) e di Alfio Trovato (2 maggio 1992)
L’ordinanza del Gip Mariolina Panasiti, datata 7 maggio 2009, ha però respinto in toto le richieste cautelari del pm per 22 indagati
Intanto, il 15 dicembre, in seguito alla richiesta di rinvio a giudizio, si è svolto l’udienza preliminare nell’aula bunker di san Vittore. In videoconferenza anche Salvatore Riina che ha scelto il rito ordinario. Altri 18 indagati hanno preferito l’abbreviato. Il tutto, intanto, è stato rinviato al 19 gennaio prossimo

Milano, 15 dicembre 2009 – “Quando sono salita nella macchina di mio marito per soccorrerlo, sanguinava dalla testa e non rispondeva alle mie domande, né dava segni di vita. Non so immaginare chi gli abbia sparato. Sino a due anni fa mio marito era costruttore edile e aveva dei dipendenti. Ha costruito a Trezzano sul Naviglio e anche in altri paesi. Da due anni, invece, si è dato alla latitanza”. Proprio per questo. “Non so dove vivesse, però ogni tanto veniva a prendermi e mi portava in un paesino che voi mi dite chiamarsi Liscate, dove aveva un appartamento del quale non so l’indirizzo”. Questa donna piccola piccola dagli occhi scuri scolpiti dentro a un volto incartapecorito parla un italiano stentato. I carabinieri di Pioltello fanno fatica a decifrare quelle parole declinate in un siciliano strettissimo. Sì, perché Antonina Ciulla è nata a Palermo nel 1938. Al nord ci è arrivata agli inzi degli anni Settanta seguendo le vicende giudiziarie del marito già sottocapo della famiglia di Resuttana, capeggiata da Piddu Madonia, uno dei più fedeli luogotenenti di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Quello è l’uomo che ama e dal quale ha avuto due figli, Pietro e Antonio detto Tony. Con lui ha condiviso anni di vita, gli ultimi 15 qui a Milano, forse disapprovando, ma certamente non ostacolando i traffici del marito. Quel marito che ha appena visto morire sul sedile di una Talbot Samba. E’ il primo giugno del 1987. E’ da poco passato mezzogiorno. Due ore prima a Liscate viene ucciso Gaetano Carollo, trafficante di eroina, ambasciatore di Cosa nostra a Milano e amico rispettato dagli uomini della ‘ndrangheta.

Un omicidio di mafia , il primo di una lunga serie che in quegli anni insanguina Milano. In totale saranno sei. Sono boss, luogotenti e semplici comparse che animano la scena mafiosa sotto la Madonnina. La macabra partitura, rimasta oscura per oltre vent’anni, oggi sembra poter essere svelata dal lavoro di Marcello Musso, magistrato tenace e caparbio della Dda milanese. Fatti e personaggi stanno tutti nelle 700 pagine della sua richiesta di applicazioni di misure cautelari. Un documento complesso, che pur avendo avuto un giudizio negativo davanti al Gip con il rigetto delle misure cautelari per tutti e 22 gli indagati, questa mattina è approdato nell’aula bunker di via Filangieri dove si è svolta l’udienza preliminare. Udienza interlocutoria, in cui 18 indagati hanno chiesto il rito abbreviato, mentre per gli altri c’è stato il rinvio al prossimo 19 gennaio. Intanto, il 20 aprile 2005 è diventata definitiva la sentenza sui mandanti dell’omicidio Carollo con nomi e cognomi che compongono il gotha di Cosa nostra. Tra questi Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Giuseppe Calò, Bernardo Provenzano condannati perché “componenti della Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra e, pertanto, quali mandanti in concorso con Salvatore Cancemi e ignoti esecutori, cagionavano con premeditazione la morte di Gaetano Carollo contro il quale erano esplosi più colpi d’arma da fuoco”. Sotto il titolo “Omicidio Carollo”, la sentenza di Palermo fa convergere anche gli omicidi di Antonino Ciulla (suocero di Gaetano e fratello di Antonina Ciulla, ndr), Armando Bonanno, Pietro Carollo (figlio di Gaetano, ndr) e Francesco Bonanno. Tutte persone uccise nello stesso giorno e in quelli successivi alla morte di Carollo, “perché – dice il pentito Marino Mannoia, già uomo d’onore della famiglia di Santa Maria del Gesù comandata, fino alla sua morte, dal Principe di Villagrazia, ovvero Stefano Bontate – volevano dei chiarimenti sulla morte di Carollo”. Omicidio, quello di Liscate maturato, sempre per Mannoia, “per motivi interni alla famiglia di Resuttana” e in particolare perchè “Carollo scalpitava troppo e questo nonostante la sua alta posizione di sottocapo”.

Eppure, quando i carabinieri di Pioltello intervengono in via Cazzaniga a Liscate, i residenti della zona raccontano che a essere ucciso è un tale ingegnere Michele Tartaglia, un tipo taciturno, ma cortese. E in effetti i documenti che la vittima tiene in tasca sono quelli di Michele Tartaglia nato a Serracapriola il 9 luglio1940. Quindi, il nome Carollo, vine storpiato in Carolla come testimonia il verbale dell’autopsia. “Tre proiettili, molto probabilmente per pistola 38 o 7,65, oltre che alcuni capelli che il Carolla stringeva col pollice indice della mano destra”. Dopodiché Davide Basile, un ragazzo di 15 anni, vede l’omicidio in diretta. In via Cazzaniga sta portando a spasso il cane. “Ho sentito tre spari provenire da via Cazzaniga, ho visto che vi erano due persone, sparavano contro un uomo che era alla guida di una vettura Talbot Samba. Subito dopo ho visto che i due salivano a bordo di una Fiat Regata grigio metallizzato. Alla guida, vi era un’altra persona. La vettura ha fatto manovra e poi sono fuggiti a forte velocità verso via Aldo Moro. Ho visto che uno dei due killer impugnava l’arma con due mani rivolta verso l’interno dell’autovettura. I killer li ho visti di spalle”. Davide Basile nel 2007 davanti al pm Musso conferma l’identica sequenza. Nei giorni successivi all’omicidio, gli investigatori scoprono che l’appartamento di Liscate, intestato a Tartaglia, è di proprietà della Monti Immobiliare, il cui titolare è Sergio Domenico Coraglia, imprenditore piemontese, che nel 1989 verrà coinvolto nell’inchiesta Duomo Connection, indagine di mafia e politica in cui l’imputato principale è proprio Tony Carollo, il figlio di don Gaetano.

L’omicidio di Liscate, al di là dei mandanti, resta un mistero fino al 2007, quando il pentito Ciro Vara mette sul tavolo nomi, fatti, circostanza. Lui, uomo d’onore della famiglia di Vallelunga legato a Piddu Madonia, reo confesso del sequestro del piccolo Di Matteo, il figlio di un collaboratore di giustizia sciolto nell’acido per ordine dei corleonesi, inizia il suo racconto il 27 luglio 2006. “Piddu Madonia mi riferì che Provenzano – con il quale, quando si trovava a Milano, aveva dei contatti anche epistolari -, gli aveva dato mandato di uccidere Ciulla o un parente di questi, poiché era inviso ai corleonesi”. E ancora: “Madonia ebbe effettivamente ad organizzare l’omicidio, come lui stesso mi riferì. Per realizzarlo aveva fatto salire dalla Sicilia Cataldo Terminio, uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e rappresentante della stessa. Terminio era stato accompagnato da Antonio Rinzivillo, uomo di spicco della famiglia mafiosa di Gela, nonché consigliere provinciale di Cosa Nostra di Caltanissetta. Sia Piddu Madonia sia Antonio Rinzivillo mi riferirono che la vittima era stata chiamata per nome e poi inseguita mentre cercava di scappare. In altre parole, si esaltavano le capacità del Terminio. So che, quindi, l’omicidio effettivamente è stato commesso”.

In sintesi: Piddu Madonia, raccogliendo l’invito della Commissione, pianifica l’omicidio, facendo salire apositamente un killer. Fatto, quest’ultimo, confermato da Calogero Pulci, già membro della commisisione provinciale di Caltanissetta. “Riferisco di un omicidio commesso nel 1987 ai danni di un palermitano che abitava a Milano. In quell’occasione Piddu Madonia mi disse di andare a prendere suo figlioccio, Cataldo Terminio, perché doveva ammazzare un palermitano a Milano. Effettivamente lo accompagnai a Milano, dove lo lasciai in compagnia di Madonia, in una casa in via San Gregorio che era stata affittata da Antonio Rinzivillo. Dopo qualche settimana, in Sicilia, il Terminio mi disse di aver fatto il lavoro. Successivamente, a Milano, Madonia e Rinzivillo mi parlarono di quell’omicidio, e del favore che, nel commetterlo, avevano fatto a Provenzano e Riina”. Dopodiché Pulci racconta la fase operativa: “Terminio e Rinzivillo mi confidarono che i pedinamenti e comunque il precedente controllo della zona dove meglio poteva essere realizzato l’omicidio erano stati fatti dallo stesso Rinzivillo”.

La regia di Piddu Madonia viene confermata, oltre che dal pentito Francesco Onorato (“Lui qui al nord aveva l’appoggio dei gelesi”), anche da Giovanni Brusca. “Parlai – dice Brusca – dell’omicidio Carollo con Salvatore Riina”, dopodiché conferma che gli altri quattro omicidi che fanno da corollario all’esecuzione di Liscate sono avvenuti “perché questi avevano preteso spiegazioni”. Chiude il cerchio delle dichiarazioni attraverso le quali il pm ricostruisce l’omicidio, il pentito Antonino Giuffrè. L’ex braccio destro di Binnu Provenzano alza il velo sul potenziale militare degli uomini di Piddu Madonia. “Giuseppe Madonia è importante perché è a capo dell’esercito di Gela, che sono tutti sparatori, persone che andavano sparando in tutti i posti dove c’era bisogno in Sicilia e nel Nord Italia. Questi avevano fatto due guerre, la guerra con gli stiddari prima e poi successivamente una guerra interna fra di loro, erano degli sparatori eccellenti, dei guerrieri eccellenti, e dove c’era di bisogno, in modo particolare quando il signor Provenzano, ecco perché le dicevo ‘un tutt’uno’. La stessa forza di Provenzano veniva indirettamente da Madonia”.

Dopo Carollo, in quello stesso anno, toccherà a Vincenzo Di Benedetto, ucciso per ordine di Madonia che lo ritiene il killer di un suo compare: il catanese Nello Pernice. Siamo solo all’inizio. Perché, come racconta Salvatore Faccella, killer di Cosa nostra, “quello che voleva rifare Riina era riportare Milano sotto Cosa Nostra, come era una volta quando c’era Luciano Liggio qua, perché Riina diceva: “Milano è nostra, non è di Jimmy Miano o di Coco Trovato o dei calabresi o dei catanesi, è nostra, non è degli altri”. (dm)